La marineria di castro

La storia della marineria di Castro è la storia delle sue piccole barche, male riparate, che hanno praticato principalmente una pesca locale. Una flottiglia di gozzi di piccola e media dimensione che ancora resistono all’avanzamento dei nuovi materiali e alle trasformazioni economiche della piccola pesca e del turismo nautico.

Col termine gozzo si indica in genere una piccola barca da pesca costruita secondo schemi tramandati almeno dal settecento e sopravvissuti ben oltre l’arrivo dei motori marini. Il termine, abbastanza universale nel Mediterraneo, può trovare alcune varianti locali, nella marineria castriota è più facile trovare il termine schifo per indicare il modello più piccolo di dimensioni e varca per quello più grande.

I battelli più grandi comunque non superavano gli otto metri di lunghezza e prendevano spesso il nome del tipo di pesca a cui si dedicavano. Sono comunque piccole imbarcazioni che è sempre possibile ritirare a secco nei giorni di burrasca.

Le variazioni allo scafo, fino all’introduzione della spinta a scoppio, restano piuttosto invariate e restano dettate dalle necessità spesso contrastanti di avere la massima operatività a bordo per le operazioni di pesca, la leggerezza nella navigazione a remi, un minimo di resitenza allo scarroccio nella navigazione a vela.

In senso cronologico, destò meraviglia e fu degna di menzione nei registri parrocchiali la costruzione nella grotta più ampia del porto di un piccolo sciabecco per conto del marchese di Botrugno, Carlo Maria Castriota, avviata il 1 marzo del 1781. Per l’occasione fu chiamato un maestro d’ascia di Napoli, tale Domenico Longo. La costruzione durò da marzo a luglio e il bastimento varato il 7 luglio col nome di SS. Annunziata.

Sciabecco

Probabilmente fu un piccolo bialbero, il cui scafo fu costruito nella grotta di mezzo e poi varato nel vecchio porto usando quel ceppo di roccia ancora presente in fondo alla grotta. Fu, forse, l’unico battello della marineria castriota nato per il trasporto marittimo e la sua vita operativa alquanto incerta.

Nei documenti storici è raro trovare informazioni sulla marineria, tranne alcuni riferimenti a diritti feudali per le poste di pesca da terra (pesca con l’ergata). Ma molte informazioni possono essere ricavate da atti relativi redatti per altre ragioni come il Censimento della Popolazione della Comune di Castro del 1818 che annota una popolazione di soli 8 pescatori e marinai a fronte di 40 contadini per un totale di 122 abitanti.

Se c’è una data storica per il riscatto della città e della marineria di Castro dalle devastazioni medievali questa può inquadrarsi nella metà della seconda parte dell’ottocento quando l’assetto delle nuove strade provinciali apre la corsa alla villeggiatura estiva delle famiglie benestanti e al commercio del pesce anche su lunghe distanze.

Alcune annotazioni, come quella del 26 luglio 1744 della scomparsa al largo per i venti di tramontana del castriota Matteo Schifano e del poggiardese Giuseppe De Giorgi,  o del naufragio del 6 aprile 1784, fanno pensare ancora a una marineria di piccolo cabotaggio di armatori forestieri. Nell’aprile del 1784 il Perotti riporta i nomi e le origini dei naugraghi: due di Marittima e tre di Vignacastrisi, l’equipaggio di una quattro remi di proprietà del prete di Marittima Domenico Antonio Russo.

Nel 1874, invece, abbiamo già traccia della presenza di almeno un equipaggio di 4 o più uomini  su un battello che naufraga (3) il 6 aprile del 1872 a pochi passi dalla riva all’uscita del porto vecchio. Dall’annotazione sui registri di morte si intuisce che l’equipaggio è su una barca di 4 remi di proprietà di un armatore (Pantaleo Lazzari) che non è a bordo, per cui è da desumere che il valore della imbarcazione fosse un vero e proprio capitale di produzione da dare in affitto o a percentuale sul pescato.

L’annotazione sui Registri di morte del naufrgio del 1872

La pratica di alcune tecniche di pesca da terra fanno pensare a un primo approccio al mare molto prudente, o forse impossibile per i costi di armamento di una barca. Ricordiamo tra queste la pesca col palamito a vento o a corrente (caloma) e l’ergata.

Un secondo momento datante la nostra storia è la data di un raro disegno tecnico del 1905, redatto dal Genio Civile per la realizzazione mai eseguita di un nuovo porto più ampio e sicuro.

Il Porto Vecchio nel 1905

E’ un porto senza protezione, ne dalle onde, ne dal moto ondoso. Lo spazio di alaggio è molto piccolo. L’assenza di una strada di collegamento al piazzale superiore complica il trasporto della barca in posti più sicuri. Tuttavia l’esigenza di ampliare e rendere sicuri questi spazi era evidente se si mise mano a progettare e appaltare i lavori di un porto di generose dimensioni.

Il Porto Vecchio

Riordinando il discorso cronologico sul piccolo porticciolo posto a valle dell’alto promontorio su cui sorgeva la città fortificata del periodo ellenistico ( e fino a tutto il settecento) le fonti storiche parlano di un primo porticciolo in epoca romana. Nell’inventario del 1543 e nella platea del 1665 si ritrovano, tra i tanti diritti feudali, quello di ancoraggio per cui ogni barca straniera ancorasse davanti a Castro era tenuta a pagare un onere secondo il tonellaggio: 5 grana le piccole, 10 grana le medie e 20 grana i grandi velieri con la gabbia. Il fatto che sia fissato anche il diritto di tratta per l’esportazione da mare di grano, orzo e fave ci indica pure che fosse praticato un qualche minimo imbarco di prodotti di produzione interna e di che tipo.

Nei bilancio del 1780, col paese ridotto a sole 80 anime, non vi è traccia di entrate provenienti nè dalla pesca, nè dall’ormeggio, nè dal traffico.

Come già detto, è da ipotizzare che la ripresa dell’attività marinara, oltre chè dallo sviluppo demografico, sia stata favorita dalla nascita della nascente colonia marina alla fine dell’ottocento, favorita a sua volta dalla costruzione della nuova rete di strade provinciali e intercomunali post-unitarie  che resero accessibili tratti di costa vocati alla villeggiatura. Sviluppo demografico, sviluppo turistico e sviluppo delle attività marinare risultano strettamente legate e concorrenti tra loro.

Il 28 aprile 1903 e poi il 4 maggio successivo, l’On. Codacci-Pisanelli, presenta in Parlamento una interrogazione nella quale “chiede di interrogare l’onorevole ministro dei lavori pubblici sulla opportunità di far redigere dal Genio civile un progetto per la sistemazione del porto di Castro di Diso” [Atti del Parlamento italiano pag. 7060].

E sempre nello stesso anno, il 1 giugno, nel lungo intervento in cui illustra le Condizioni della Provincia di Lecce [Atti Parlamentari 8430-8448], dopo l’esposizione della drammatica situazione economica salentina, il parlamentare tricasino propone: “Un’altra forma di opere pubbliche, utilissima per sé e giovevole ad attenuare la disoccupazione, è, rispetto alla mia contrada, quella consistente nel sistemare i piccoli porti dell’estremo litorale adriatico e Jonico. Così non soltanto si da lavoro, ma si apre una nuova via di traffico dei piccoli velieri e si attirano sempre più le nostre popolazioni verso quella grande e non sfruttata fonte di ricchezza che è il mare. Una parte dei miei conterranei già esercita con mirabile ardire, l’industria peschereccia. Ma, per poco che che il mare ingrossi, quei poveri pescatori sono costretti a tirare le loro barche a terra, con non lieve spreco di fatica e con notevole danno alle imbarcazioni“.

Vela latina – Sullo sfondo Punta Currenti

Solo alcuni anni dopo si ottenne la sola sistemazione del Porto di Tricase, che assieme a quello di Otranto, restò il punto di riferimento per i grossi battelli di pesca fino agli anni ’80, periodo in cui si riuscì a garantire la completa sicurezza delle specchio portuale del porto nuovo anche per i natanti non facilmente trasportabili.

La discussioni sul porto sicuro perorato dal Codacci-Pisanelli trovano eco negli scritti del Perotti alcuni anni dopo (1907) che inizia il suo scritto “Castromarina” con “Nella tabella dei porti di quarta classe, allegata al disegno di legge che oggi appassiona il pubblico italiano, leggesi questa designazione di luogo: Castro di Diso. Se le cose passeranno lisce, Castro avrà dunque un miglio rifugio per le sue barche, forse un porticino per piccoli legni; ma con l’inizio di questo suo rinascimento, le resterà, ufficialmente impostole, quello strano nome“.

L’incipit era per sostenere la denominazione di Castromarina tra le tante allora in discussione per la nuova colonia marina sorta nei pressi dell’antico porticciolo ma descrive anche quel posto come “il solo posto della rocciosa ripa dove i castrioti possano accentrare il peschereccio lavoro; è il quartiere marittimo del paese che chiamasi Castro. Tranne pochissimi, nessuno vi dimora; ma tutti vi passano, quando c’è da fare. Nei giorni di mare cattivo, è un deserto; è un formicaio nei giorni belli“.

Il nuovo piano dei porti e la progettazione della sistemazione di quello di Castro arrivò purtroppo proprio con l’inizio del primo conflitto mondiale (1915) e l’opera, benchè regolarmente appaltata, non fu mai iniziata.

La situazione riportata nella progettazione del 1905 perdura per almeno quindici anni ancora. Da due foto dei primi anni del novecento si possono inquadrare tutti gli elementi riportati nel disegno.

Porto Vecchio – Primi anni venti

Lo scalo di alaggio è estremamente ridotto, buona parte dell’attuale scalo è occupato da un rialzo occupato dagli stenditoi per le reti (spannituri). La piccola flottiglia è composta da piccoli battelli per la pesca. Si nota una piccola lancia (con la coda tronca) e alcuni piccoli schifi (schifareddri). Gli alberi per la vela sono riposti sul posto appoggiati alla scogliera. E’ presente una piccola cabina al centro, forse per l’intendenza di finanza sempre presente nel porto di Castro.

Porto vecchio – Primi anni venti

Nella foto è riconoscibile lo scoglio isolato di arenaria a cui erano addossate alcune cabine in legno su palafitte, secondo alcuni utilizzate dalle suore di Marittima per i bagni. Lo spazio tra il traforo (probabilmente non ancora realizzato) e lo scoglio calcareo che chiudeva la piccola insenatura era molto basso e di nessuna difesa alle onde. Peraltro pare lisciato per agevolare lo stendimento al sole delle reti. Il costone calcarenitico (del traforo) appare parzialmente ridotto sia sul lato nord che sul lato ovest in quanto il profilo di una grotticella più ampia è tamponata da una nuova muratura. E’ già presente il caratteristico camino in conci di tufo sul lato nord di cui ora è rimasto soltanto il canale per la parte scavata nella roccia. Lo spazio retrostante il massiccio calcareo del traforo era occupato da altri ammassi calcareniti tra cui il Pesco delle Arcore che dava il nome a quel piccolo tratto di mare.

Il Perotti scrive nel 1909 questo tratto indifeso tra lo scoglio della punta del Porto Vecchio e l’ammasso del Traforo era provvisto di una qualche scogliera, forse di semplici massi.

Nel 1921 la vecchia scogliera naturale ebbe grossi danni e il ricovero delle barche divenne ancor più problematico. Probabilmente saltò via qualche pezzo di calcarenite (o i massi) addossati alla roccia calcarea avendo il vecchio porto la caratteristica di essere posto per metà nell’affioramento del tenacissimo calcare e per metà in roccia calcarenitica variamente resistente. Fu l’occasione per tirare fuori il vecchio progetto e dare mano alla costruzione di un molo in calcestruzzo che integrasse e rinforzasse il vecchio scoglio calcareo. I lavori furono terminati nel 1926 e l’opera è ancora oggi perfettamente funzionale e conservata. Dei lavori è conservata una bella fotografia con la ripresa dei lavori di spianamento dell’area e di una gru a motore in primo piano, mentre da mare è possibile vedere l’opera in cls in occasione di una processione a mare in onore della Madonna del Rosario di Pompei. Il piccolo molo è stato succesivamente rialzato con una ripresa in cls successiva.

I lavori furono accompagnati dall’adeguamento della strada di discesa da via Santuario fini ai  limitati terrazzamenti dell’attuale Piazza Dante, si allargarono, appunto, i terrazzamenti di Piazza Dante e si livellarono fino a coprire un primo livello di grotte ancora visibili in alcune foto di inizio secolo. Si sistemò l’attuale via Scalo delle barche costruendo la caratteristica rotonda in pietra a forma di torre medievale, oltreché i lavori in cemento a rinforzo della diga naturale già detti e un ampliamento del piazzale di alaggio. La discesa di via Scalo delle barche restò per molti anni senza parete di rivestimento e il luogo privileggiato per i preparativi di pesca.

Via scalo delle Barche – 1929

A compimento di tutte queste opere, nell’anno successivo (1927) si inaugurò un piccolo monumento  (un faro votivo) in onore degli otto marinai caduti nella prima guerra che è ancora perfettamente conservato. I lavori furono finanziati in vario modo. Alcuni risparmi furono ottenuti dai lavori di costruzione (sistemazione di un nuovo tracciato) della provinciale Vignacastrisi-Castro nel 1922, per circa 14.000 lire,  che vennero dirottati alla costruzione dell’attuale discesa di Via Scalo delle barche. Furono gli stessi pescatori di Castro a lavorare gratis per la realizzazione della strada, purchè i risparmi fossero investiti in una prima decorosa sistemazione del porto.

Giuseppe Casciaro – 1930 – Porto di Castro

Un pastello del Casciaro (datato sul retro al 1930) riprende il porticciolo e la caratteristica torretta.

Diverse foto ci indicano una flottiglia di piccoli battelli a due remi, integrati a volte con un albero per la vela, di circa 30-40 unità.

Lo stato delle cose perdurerà fino alla metà del 1950 quando si mise mani alla costruzione del Porto Nuovo in località “Tagliate” appena poche decine di metri ad est del Porto Vecchio. Il Porto Vecchio, ridotto di spazi a terra, insicuro anche per le barche in secca, torturato dalle periodiche scariche di acque piovane recapitate dallo sbocco naturale del Canalone, aveva ormai esaurito le sue funzioni marinaresche. Oggi resta l’oggetto preferito di tanti fotografi e il punto di imbarco di barche per il turismo nautico e i pedalò.

L’arrivo del Porto Nuovo aprirà una nuova fase della vita marinara di Castro e vedrà i progressi della pesca moderna, il primo barcone col motore entrobordo (1958), le reti e le corde con filati artificiali, la pesca a strascico e le celle frigorifere. Fino ad allora gli unici progressi erano stati l’uso del piombo al posto della terracotta e l’uso delle lampare a gas,  restando la pesca ancora ancorata alle più profonde forme arcaiche conosciute.

A conclusione di queste note sul riparo storico della marineria castriota c’è da ricordare che se da un lato il porto fu sempre un punto debole, sia come dimensioni a terra che a mare e per nulla sicuro, la rada (baia) di Castro fu e resta un punto caratteristico della costa salentina. In questa rada protetta dai venti di tramontana tante barche, anche quelle più moderne di grossa dimensioni, riparano in attesa che i venti contrari sul canale d’Otranto si attenuino.

Le zone di Pesca

I luoghi di pesca della marineria castrense sono stati principalmente le acque antistanti la costa che vanno dal Capo di Leuca fino ai laghi Alimini secondo il tipo di pesca adottato e il periodo di pesca.

Alcuni tipi di pesca, ormai abbandonati, erano praticati anche dalla costa in postazioni fisse o da qualunque punto della costa. Tradizioni orali parlano di vere e proprie traversate a remi del Canale d’Otranto fino alle coste albanesi. La pesca dei tonni o delle razze,  invece, richiedeva l’uscita in alto mare fino ai limiti delle profonde depressioni dell’adriatico (Scavaddratu) ad una distanza dalla costa di circa 20-25 chilometri.

La presenza di correnti superficiali e profonde molto differenziate, lo sbocco di tante falde di acqua dolce, la variabilità del fondo marino richiedeva una conoscenza specifica e puntuale. Oggi gli studi oceanografici ci confermano quanto tramandato in forma orale sulle caratteristiche del Canale connotato da una estrema variabilità specie nella distribuzioni delle correnti superficiali importanti nella navigazioni a remi, variabilità foriera di tante sventure.

Per alcune stagioni la pesca interessò anche lo Ionio fino alle acque antistanti Ginosa Marina, famoso il passaggio a livello n.25. Qui stazionavano permanentemente per tutta la primavera 5-6 battelli a due e quattro remi con circa 20 imbarcati per la pesca a chianci alle sarde. Era un periodo di pesca magro per le acque locali e imbarcato sui camion una piccola flottiglia di battelli ci si spostava permanentemente nelle acque lucane facendo porto a Metaponto dove la pesca non era affatto praticata dai locali. Il pescato era riportato sul mercato di Castro quotidianamente con un piccolo autocarro. Se la pesca era abbondante una quota veniva lasciata ai mercati di Taranto.  L’ultima campagna nello Ionio fu nel 1951 e fu l’unico ritorno a remi di una piccola fottiglia di battelli dei fratelli Fersini (Pignola), un giorno ricordatissimo in quanto l’arrivo al porto concise con la morte della loro madre Lucia Capraro.

Le Tipologie delle imbarazioni

Probabilmente i modelli di gozzo per la pesca sono costruiti a partire dal novecento unicamente dai maestri d’ascia di Marittima, su modelli comuni alla marineria adriatica pugliese e probabilmente anche con quelli napoletani.

Nel 1940 la marineria castriota è formata da oltre 70 battelli di cui almeno sette barche del tipo chianci, un grosso gozzo a quattro remi adatto alla pesca con la lampara (cianciolo). Per non fare confusione, ricordo che negli ultimi anni col termine chianci è stata indicata una motonave lunga sui 10-12 metri dotata di motore entrobordo, la cui trattazione in questo articolo è solo marginale.

Per uniformità con le tante descrizioni che si possono trovare nelle pagine dedicate alle piccole imbarcazioni per la pesca del Mediterraneo (Liguria, Penisola Sorrentina, ec..) cercheremo di utilizzare i termini più ricorrenti nelle altre marinerie anche per cogliere le piccole differenze che questi scafi spesso avevano in ragione di una variante locale al tipo di pesca comunemente praticato.  Ricordo ancora che ad eccezione del termine schifo non esistono nella marineria castriota particolari termini per indicare il natante, che di volta in volta può essere indicato in vari modi e spesso in modo equivoco (schifo, schifareddru, varca, battello, chianci, motonave, lancia, lanzitedrra, ecc..). Tuttavia, tutte le imbarcazioni che l’equipaggio di bordo poteva velocemente rimorchiare a mano sul bagnasciuga sono da inquadrare nella famiglia dei gozzi. Solo dopo l’arrivo dei primi entrobodo degli anno ’60 si rese necessario il ricorso a un argano meccanico per il rimessaggio a secco.

La distinzione locale è abbastanza semplice: col termine schifo viene indicato un piccolo gozzo a due remi della lunghezza massima di 18 palmi, vale a dire di 4,50 ml; col termine varca viene indicato un gozzo a quattro remi della lunghezza massima di 27-30 palmi, lungo intorno ai sette metri. Nella tradizione locale si è conservato invariato il solo schifo, mentre la varca ha mutato con l’uso degli entrobordo alcuni rapporti geometrici diventando più panciuta.

La pesca del pesce azzurro, composto principalmente da alici (acciughe) e sarde, è stata praticata col gozzo che in altri ambiti locali è detto a menaide, un termine che si può derivare dalla contrazione di “gozzo attrezzato per la pesca con le reti a menaide” (1) che poteva raggiungere per i modelli più grandi anche i 27 palmi (7,13 metri, posto che un palmo napoletano è uguale a 26,4 centimentri). Lo scafo di questi gozzi aveva prua e poppa a punta, adatti per navigare indifferentemente nei due sensi senza problemi, ed era alto di bordo a prua, per tagliare il mare e riparare dalle onde, e basso e a poppavia, per poter sistemare all’occasione, con facilità la lampara, la grande fonte di luce utilizzata di notte per attirare il pesce. Restavano comunque delle imbarcazioni tutto fare che potevano essere utilizzate in diversi scenari di pesca. Le dimensioni dello scafo consentivano di uscire in mare più aperto o di imbarcare maggiore equipaggio e lunghezza di reti.

Processione in mare – Gozzi a 4 remi in primo piano

Lo scafo era meno panciuto e più filante delle attuali barche in legno che possono godere della spinta a motore e quindi avere più larghezza trasversale per le operazioni di pesca. Più avanti lo descriveremo semplicemente come barca a quattro remi o varca. La barca a quattro remi è scomparsa in favore di grossi gozzi panciuti spinti da motori entro bordo, che tuttavia conservano la conformazione del ponte (ponte anteriore, panche e sanula a poppa, timone diretto a mano). Le operazioni di barca di calata e tirata nella pesca alla chianci è stata dapprima  svolta da barconi in legno con una linea superiore della fiancata molto alta e lunghe sui 10-12 metri, tutto ponte con cabina di guida e dei semplici argani pneumatici di ausilio al tiro delle reti. Attualmente tutti questi vecchi barconi (Odissea, Angelo Azzurro, Aquila, ecc..,) sono stati rottamati o convertiti alla navigazione turistica. I moderni motopesca attrezzati per la pesca a strascico sono stati presenti in modo occasionale.

Vecchio gozzo in abbandono

Il piccolo gozzo, meglio noto come schifo (o schifareddru), veniva invece utilizzato  per la posa delle reti da posta lungo le scogliere, per la pesca dei polpi, dei calamari, delle seppie e per la posa delle nasse; pur appartenendo alla stessa tipologia, questo gozzo era lungo da 12-14 palmi fino a 18 palmi (3,20-3,70-4,50 metri) e, proporzionalmente, più largo della varca; aveva come mezzo di propulsione principale i remi. Più avanti lo indicheremo come gozzo a due remi e nella marineria contemporanea è l’unico gozzo sopravissuto in virtù della sua pesantezza e stabilità in mare. Conserva ancora la poppa a punta, e il motore ( fuori bordo) va sospeso lateralmente al termine della fiancata per non impedire il movimento del timone; non presenta più il foro per l’abero della vela.

Schifareddru – La panca di rematura e il ponte di prua sono unificati.

La barca a quattro remi è scomparsa in favore di grossi gozzi panciuti spinti da motori entro bordo, che tuttavia conservano la conformazione del ponte (ponte anteriore, panche e sanula a poppa, timone diretto a mano). Le operazioni di tiro delle reti è assistita da argani oleopneumatici alimentati dal motore principale (salpareti). L’uso del timone manuale è conservato unicamente sui nuovi gozzi con motore entrobordo e il sistema di marcia è organizzato per consentire le operazioni di calata delle reti anche da un solo uomo di equipaggio. Nel caso dei piccoli shifi la guida è assicurata dai remi e se presente dall’angolazione del motore stesso. Alcuni schifi comunque conservano le asole di fissaggio del timone anche se con l’abbandono della marcia a vela non ha alcun senso.

Il nuovo modello di barca che ha sostituito il gozzo a 4 remi

Le operazioni di barca di calata e tirata nella pesca alla chianci è stata dapprima  svolta da barconi in legno con una linea superiore della fiancata molto alta e lunghe sui 10-12 metri, tutto ponte con cabina di guida e dei semplici argani pneumatici di ausilio al tiro delle reti. Attualmente tutti questi vecchi barconi (Odissea, Angelo Azzurro, Aquila, ecc..,) sono stati rottamati o convertiti alla navigazione turistica. I moderni motopesca attrezzati per la pesca a strascico sono stati presenti in modo occasionale.

Velature

Velatura a tarchia

Tranne alcuni piccolissimi battelli intorno ai tre metri, erano tutte armate con vela latina (triangolare), senza fiocco non avendo il palo di bompresso e comunque troppo corte per legare un piccolo fiocco. Assente pure l’impostazione con la vela a tarchia, che come la velatura latina permetteva di sgombrare il ponte della barca una volta finita la navigazione a vela. L’armatura a randa col boma trasversale basso non consentiva infatti un rapido e agevole smontaggio della velatura e restava un impedimento non da poco su battelli già di ridottissime dimensioni.

Velatura latina

 La poppa a punta (stellata) consentiva di vogare procedendo anche indietro, manovra che si effettuava quando per esempio si voleva sorprendere il pesce con la lampara accesa. Il ponte è presente solo in prossimità della prua e ridotto a un pianale (sanula) verso poppa che presenta due sponde a mo di vasca per contenere meglio le reti, nel mezzo una o due panche per incastrare l’albero o far sedere i rematori, operazione che era agevole svolgere anche in piedi.

E’ uno schema comune con tutti i gozzi pugliesi (es. di Monopoli) e sui bordi si completava coi perni di rematura e quelli per il fissaggio delle vele (usati pure per l’ormeggio). Alcune imbarcazioni portavano il terminale della carena di prua molto alto senza una apparente ragione pratica o decorativa, forse frutto di diverse maestranze o residui di una armatura velica ormai abbandonata o mai praticata localmente. In questo disegno raffigurante una spagnoletta della marineria algherese il terminale pare servire a bloccare in posizione di riposo l’antenna della vela latina e sgombrare così l’area di lavoro sulla barca.

Spagnoletta

L’armamentario velico del gozzo era ridotto a pochi elementi tra cui l’albero (sfilabile), la vela e l’antenna (palo traverso mobile che porta la vela); l’antenna, per comodità, era divisa un due parti e legata e slegata di volta in volta; del fiocco o bompresso non è presente nemmeno il nome o la variante dialettale. La vela tessuta a mano e cucita a misura era rimessa in un sacco.

I gozzi castrioti non portano particolari decorazioni a sbalzo o disegni e il colore utilizzato è sempre occasionale e mutevole, portano generalmente nomi sulla fiancata di donna o di santa protettrice.

Varianti

Accanto alle due varianti principali del  gozzo per la pesca, con lo sviluppo del turismo nautico, che in Castro è  molto antico, viene utilizzata un particolare gozzo, la lancia,  con la poppa troncata di traverso e a a piombo per consentire di avere un secondo ponte verso poppa per il trasporto dei turisti alle grotte e per le gite in mare. Dopo gli anni ’60 con l’arrivo dei motori marini, alla bisogna sul traverso di poppa poteva essere montato comodamente un motore fuoribordo per navigazioni più lunghe o per la per la pesca amatoriale.

La Barca – Terminologia

Accanto  termini comuni, come albero, fasciame, poppa, prua, nella marineria castriota ritroviamo alcune varianti dialettali delle parti che costituiscono la barca.

Nasu de prua: è la piccola protuberanza sulla prua che assolve a piccole funzioni, come tenere in posizione i remi a riposo, a volte presenta un anello di legatura, a volte è fortemente rialzata a scopo più ornamentale che funzionale.

Maomettu: sono i pioli infilati nel bordo superiore della fiancata, in simmetria sulle due fiancate in genere solo a prua. Assolvono la funzione di punti di forza per legare la barca all’ormeggio o fissare l’albero e le velature.

Sanula: è una delle due piccole parti di ponte presenti su questo tipo di gozzo. Considerato che l’equipaggio opera a livello più basso del pavimento (paiuli) della barca, la sanula assume più la funzione di ripiano (per le reti), tant’è che presenta due rialzi laterali che la conformano a vascone. E’ il contenitore che al ritorno contiene il pescato. E’ verso poppa, ma tra sanula e timone è sempre assicurata una fossa che consente anche a un solo uomo di equipaggio di svolgere a mare le reti ordinate già sulla sanula e contemporaneamente gestire la velocità di marcia e la guida, anche soltanto per contatto con la coscia.

Scarcia: è il massello di legno che costituisce l’ossatura di rinforzo della barca a livello orizzontale e che porta al di sopra  le tavole del pavimento (paiuli). In genere segue la posizione dello schema delle ordinate e si completa al centro lungo l’asse della barca da un massello da poppa a prua detto parmisale.

Scarmu: è il piolo di appoggio e fissaggio del remo (rimu). Allo scarmu il remo è fisato da una corda di sicurezza detta stroppiu. Il bordo della fiancata in corrispondenza dello scarmu è generalmente rinforzato e modellato per regolare il consumo dei legni a contatto. La gola mediana del remo che poggia sulla fiancata è detto navigaturu.

Stipu: è un piccolo residuo di ponte a prua che è chiuso da uno sportello sul lato interno dove si custodiscono piccoli attrezzi.

Zulu: tappo di fondo per svuotare l’acqua rimasta sotto i paiuli una volta a secco.

Palagne e Cugni: accessori in legno indispensabili solo per tirare e bloccare a terra la barca. Le palagne, opportunamente distanziate tra loro, servivano da rotaia di scivolamento per ridurre lo sforzo del tiro a secco. I cugni sono dei paletti di contrasto laterale per tenere la barca in allineamento verticale.

La Pesca

Alcuni tipi di pesca richiedevano per necessità o per opportunità la pesca di gruppo (a chianci, minaiti, ecc.). Nella pesca sotto costa e nella pesca a sciabicca era possibile la pesca con un solo battello.

La pesca di gruppo più nota è quella della chianci (cianciolo). Nella pesca con le lampare, alimentate  a carburio a a petrolio fino all’arrivo delle bombole di gpl, lo schema poteva prevedere più tecniche: da quella di due barche che circuitavano con la rete la zona di trappolamento dove le piccole barche con le lampare avevano attirato il pesce, a quella praticata da due sole barche. Con l’arrivo dei grossi barconi a motore la funzione della circuitazione con la rete è stata svolta da un solo barcone e l’attiramento da tre o quattro barche portalampare. La pesca notturna con l’attiramento dei branchi di pesce con la luce era già nota nel seicento sulle coste calabresi dove come fonte di luce venivano usate fascine di steli di ginestre. L’uso del gas acetilene prodotto dalla reazione dell’acqua col cloruro di carburo era tuttavia una invenzione brevettata solo nel 1900, per cui questo tipo di pesca non si sarà sviluppato in modo massiccio se non dopo gli anni trenta. Negli anni 40-50 le lampare erano alimentate a petrolio con l’accortezza di accendere la garza con alcool per non consumarla o annerirla.

La pesca sottocosta richiedeva quasi sempre la navigazione a remi. L’assenza di una velatura a randa non consentiva l’andatura di bolina e non sempre il vento spirava nella direzione voluta. Tragitti da Castro fino alle marine di Corsano o Novaglie erano all’ordine del giorno. Anche la pesca davanti ai laghi Alimini era cosa ricorrente, mentre stagionalmente una piccola flottiglia di barche a 4 remi si spostava fino alle marine di Ginosa dove pescava e commerciava sul posto.

La Fossa adriatica – Scavaddratu

 Le capacità di operare di un battello a 4 remi erano legate solo alla determinazione dell’equipaggio e al rischio che erano disposti a correre. Battute di pesca con reti e palangari (consi) si sono svolte anche in corrispondenza della fossa del Canale d’Otranto (Scavaddratu) che dista da Castro circa 25 chilometri. Il limite della fossa è rimarcato a un piccolo risalto idraulico creato dalle correnti e dall’innalzamento repentino del fondale. Qui in profondità si poteva pescare di tutto, dalle razze e qualche pesce spada.

Rientro dalla pesca – 1954

La navigazione a vela e remi è perdutata fino alla metà degli anni ’50 quando tutti i battelli si munirono dapprima di piccoli motori fuoribordo e poi con gli anni anche di motori entrobordo facendo gli opportuni aggiustamenti per il passaggio dell’albero dell’elica.

I primi motori furono dei fuoribordo di produzione italiana derivati da delle motopompe a gambo lungo alimentati a petrolio. L’alloggiamento era a poppa su uno dei bordi laterali su una mensoletta in legno aggiunta allo scafo e adattata alla bisogna. Anche alcune barche a 4 remi furono adattate per l’inserimento di motori entrobordo alimentati a petrolio da avviarsi a freddo con benzina.

Tecniche di pesca

Pesca a menaide. (Minaiti) La tecnica di pesca, un tempo diffusa su tutte le coste del Mediterraneo, oggi viene ormai raramente praticata sia per il basso valore commerciale del pesce azzurro sia perchè a tale pesca si dedicano più proficuamente intere flottiglie di motopescherecci benchè la ricchezza del mare sia andata via via riducendosi. Come per molti tipi di pesca, con lo stesso termine si intende generalmente sia il tipo di rete, sia il tipo di barca impiegata e spesso anche il frutto della pesca. La rete a menaide era una rete formata anche da più parti (partite), lunghe ciascuna fino a 12o metri, che portava il nome dialettale di minaiti. Il margine superiore era munito di un cavo, cui erano infilati galleggianti di sughero (ssumaturi) o barilotti; quello inferiore era munito di una lima di piombo.

Rete a menaide

La rete non veniva calata sul fondo, perché il pesce azzurro si spostava a filo d’acqua. Per portare la rete alla quota giusta si adoperavano grossi galleggianti di sughero, attraverso il quale scorreva una corda, detta colonna, legata con un’estremità al cavo di sughero. Ogni posta era fornita di cinque o sei colonne, lunghe trenta metri. I galleggianti di sughero, sollecitate dal peso della rete, si disponevano in maniera verticale, emergendo in buona parte sopra la superficie dell’acqua. Il sistema era libero di scarrocciare nelle correnti. La menaide era una rete semplice, con una sola mappa (un solo strato a differenza dei tramagli) nella quale il pesce restava impigliato nelle maglie con gli opercoli. La barca usata per la pesca a menaide era indifferente in quanto la differenza era solo sul numero di partite di reti che si potevano imbarcare, e spesso si usciva in coppia. Le barche a quattro remi portavano un equipaggio di quattro marinai, e a volte un ragazzo, che aveva il compito di asciugare l’acqua che le reti lasciavano colare all’interno della barca. Alla pesca potevano partecipare più equipaggi con sbarramenti anche più lunghi. Non si usavano in questo tipo di pesca esche o inganni luminosi.

La pesca avveniva comunque durante la notte, e precisamente intorno alla mezzanotte. I mesi più favorevoli per la pesca delle alici erano maggio, giugno e luglio; a Castro era rinomata la sarda locale che si pescava già a cominciare da gennaio-febbraio e quasi tutti i mesi erano buoni.

A differenza di altre marinerie l’alice o la sarda non veniva scapata durante la liberazione dalla rete o comunque ancora viva sulla barca. La scapatura (decapitazione con conseguente eviscerazione)  dell’animale vivo coi tessuti ancora ossigenati per alcuni è la ragione di supeirorità di sapore delle carni. Comunque l’eviscerazione è più completa ed efficace quanto più è effettuata sul pesce fresco.

 Pesca a Sciabica – Col termine sciabicca (sciabbica) si intende un po tutto: sia la barca che lo pratica, sia la rete usata, sia il prodotto della pesca. E’ una variante della pesca a strascico, cioè con una rete di movimento movimentata da un natante (rete di circuitazione).

Sciabica

Ha molte varianti e si può considerare l’antenata della pesca a strascico delle moderne motopesca.  Nelle coste sabbiose si può praticare il tiro dei due capi da terra, nella pesca moderna invece un solo barcone tira la rete che apre i capi grazie a due timoni divergenti. Nella marineria castriota la sciabica era praticata solo da mare e con una sola barca. La rete aveva maglie molto fini e nel sacco terminale si recuperara molto novellame (tartana). Alla sciabica era destinato ovviamente un gozzo a 4 o più remi.

L’operazione di stendimento era dapprima in linea e poi raccolti i due capi terminali si cominciava il tiro in barca. Col tiro si formava il coppo di cattura e un certo tragitto di trascinamento sul fondo che consentiva l’intrappolamento di pesci di fondo sabbioso. Le prede col tiro finivano nel sacco terminale.

Pesca con la nassa (nascia) – Era la pesca specifica delle aragoste e si svolgeva con cestini di canne intrecciate con imbocco a imbuto a trappola. Nei periodi di riproduzione come esca al suo interno si ponevano alcuni rami di lentisco (ristincu) che attiravano le femmine nella deposizione delle uova. L’intrappolamento della femmina spesso comportava l’intrappolamento del maschio che si muoveva per la fecondazione. In questo caso il pescatore al controllo della nassa asportava il solo maschio catturato lasciando al suo interno come esca ancora più efficace la femmina. Questo tipo di pesca non si pratica da quando è terminata la produzione locale di nasse.

Motulare – Una delle più famose forme di pesca con rete alla deriva è la pesca con le motulare,  una lunga rete di circa 200-300 metri e alta 10-11 metri che si calava in mare secondo un percorso circolare e si abbandonava alla corrente marina. Il nome stesso indica come preda il tombarello (motulu), una varietà meno pregiata del tonno. Scrive lo storico Girolamo Marciano: “Sono i tonni che si pigliano in questi tempi (marzo, aprile, e maggio) di quattro specie: la prima è di quelli piccoli quando nascono, che si chiamano cardile; fatti più grandi, si dicono limose, e compiuto l’anno, tonni. Di questi ultimi se ne pigliano di meravigliosa grandezza, cioè di rotola cinquanta l’uno (40 kg). La seconda specie sono i tonnotteri, che chiamano ziri, de’ i quali il più grosso è di rotoli dieci (8 kg). La terza specie sono le palamite, di cui la maggiore è di rotoli tre (2,5 kg). La quarta ed ultima specie sono i moduli, peggiori di tutti gli altri, il maggiore dei quali non eccede il peso di libbre quattro (1,2 kg). Dal ventre grosso de’ tonni si fa il tarantello, così detto dalla città di Taranto, e dalla loro schiena più carnosa e magra la tonnina. Dai tonnotteri, o zirrali, si fa la zurra, simile al tarantello.“

Ricordiamo che l’uso di conservare i tonni in olio d’oliva è stato introdotto solo alla fine del XVIII, mentre prima era usato conservallo salato e per poterlo consumare era necessario un lungo processo di dissalatura dall’esito molto incerto. Il pescato di tombarelli nel periodo aprile-maggio era molto abbondante e il prezzo era abbastanza basso da consentire a molte famiglie di conservare scorte di conserva grazie anche alla nuova tecnica dell’olio di oliva.

Sempre con reti simili alle motulare, ma con maglia più piccola si pescavano le sarde.

Tramacchiati – E’ un tipo di pesca a posta fissa è  svolta tenendo la rete in posizione bloccata per tutto il tempo di attesa ritenuto proficuo ad intercettare il passaggio delle prede. La rete viene svolta in mare in senso perfettamente lungitudinale orientata secondo l’esperienza del pescatore e assicurata a fondo con dei pesi in pietra (mazzare). La rete più utilizzata è il tramaglio (tramacchiati) lunga dai 40 ai 60 metri è alta dal metro al metro e mezzo. Viene posata (calata) appena sotto il pelo dell’acqua con dei piccoli galleggianti sopra e dei pesetti in piombo (chiummine) sotto. La caratteristica principale del tramaglio è di costituirsi da tre ordini di reti sovrapposte (tre-maglie), due a maglie più larghe esterne e una interna più fitta. Presenta inoltre  dimensioni delle maglie differenti secondo il tipo di pesce da catturare. La posizione della rete è segnalata da due piccoli galleggianti e i tempi di attesa non superano le sei-sette ore. E’ possibile praticarla con un solo uomo e da un piccolo battello. Lo srotolamento è fatto col battello in leggero moto di avanzamento e facilitato dal perfetto arrotolamento della rete nelle fasi di preparazione.  La ripresa (tirata) è fatta con movimento inverso liberando il pescato mano a mano che la rete viene raccolta sulla barca.

La presenza di numerosi natanti da diporto nelle acque antistanti la costa ne ha comportato la quasi completa scomparsa per i danneggiamenti provocati dal loro passaggio sulla rete che resta, appunto, una rete di superficie. Considerata la posta fissa i danni potevano essere prodotti anche da grossi pesci (delfini) che spesso predavano anche il pesce catturato.

Palangaro (Consu) – E’ una tecnica molto nota e con caratteristiche comuni a molte aree del Mediterraneo e anche oltre. Dal punto di vista storico è da ricordare che il palamito, cioè quel breve tratto di filo discendente dalla corda principale di circa un metro che portava l’amo con l’esca era ricavato dal singolo crine della coda dei cavalli.

Pescatori di Castro preparano il palangaro.

La Pesca da Terra

I tipi di pesca da terra sono fondamentalmente tre: con la canna, con l’érgata e con la caloma. La prima è piuttosto nota, la seconda e la terza meritano invece una trattazione.

Ergata :  prende il nome dal termine latino che indica l’àrgano in quanto l’àrgano era l’accessorio per calare le reti dall’alto di una insenatura. Era praticata nelle antiche pescherie feudali, che nella vecchia Contea di Castro, che andava da Porto Badisco alla Marina di Andrano, erano piuttosto numerose e ben documentate. Pagavano diritti di pesca specie nel periodo di Quaresima quando la carne di pesce era l’unica consentita. Il sistema consisteva nello sbarramento con una rete mobile calata dall’alto di una insenatura naturale (Seno Zinzulusa, Badisco, Acquaviva, ecc..) e la cattura di pesce di una certa pezzatura, in genere ricciole, che entrava o usciva intercettando la rete. La calata e la tirata erano fatte da terra e per questo era richiesto un sistema di carrucole e un argano per movimentare i pesi non indifferenti delle corde, delle reti bagnate e del pescato imprigionato.

In genere le reti erano tenute in posizione per sette-otto ore e poi controllate. Spesso nella postazione di controllo e manovra  c’era una minuscola casetta di ricovero. Gli ultimi a praticare questa pesca furono i Lazzari (Angelo Salamone Lazzari) nelle acque della Zinzulusa. Nessun vivente ricorda di averla praticata direttamente anche se molti ne ricordano la pratica da parte di pescatori più anziani.

Caloma: E’ una variante della pesca col palamito fatto dalla barca (localmente conosciuto come consu) e si può praticare su tratti di costa con una presenza di forti correnti superficiali marine che si muovono da terra al largo condizioni che spesso si ritrovano sul litorale adriatico salentino. Si costituisce da una lunga corda a cui sono appesi un numero variabile di ami. Il capo mobile legato a un sistema galleggiante viene trascinato al largo dalla corrente il capo fisso resta legato a terra. Gli ami sono assicurati alla corda principale (orizzontale) a mezzo di una serie distanziata di corde secondaria verticali (palamare) molto corte (si utilizzavano difatti i crini delle code dei cavalli) che calavano brevemente verso il fondo grazie al piombo . Il percorso della boa mobile era spesso aleatorio e con alcune prove e aggiustamenti al sistema galleggiante se ne poteva correggere in qualche modo la direzione. Era costituito da un semplice incrocio di canne comuni e da un alberino di mezzo metro con una bandierina di avvistamento. Gli ami erano civati (riempiti di cibo) con l’esca al momento dello svolgimento. La corda principale era dotata di galleggianti e la pesca era quasi a pelo d’acqua. I pesci pescati erano esclusivamente aguglie (acure). In zona non è più praticata, mentre in altre parti, specie a livello amatoriale e con l’uso dei moderni fili di nylon è ancora continuata. Su Youtube troverete molti video usando i tag “palamito a vela” o “caloma”

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E’ stato totalmente tratto da www.micello.it!

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